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Cassazione Civile: nullità del contratto d'ufficio su domanda adempimento o risoluzione

Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile, Ordinanza interlocutoria 28 novembre 2011, n. 25151
 

Servitù di passaggio ed usucapione

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE - Sentenza 10 marzo 2011, n. 5733
 

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L'onere di contestazione nella Legge 69/2009

Articolo di Giuseppe Buffone

 

da www.altalex.it

Sommario: 1. Art. 115, I c.p.c.: relevatio ab onere probandi. - 2. Fatto non contestato e discrezionalità del giudice - 3. Ratio legis: incidenza anche sul principio del "giusto processo" - 4. Evoluzione pretorile dell'istituto - 5. Non contestazione e "triplice" effetto per il processo - 6. Contestazione "tempestiva" - 7. Ambito applicativo - 8. La "specificità" della contestazione e la "negazione" del fatto - 9. Tecnica di non contestazione: le regole - 10. Contumacia e parti - 11. Bilateralità dell'onere di contestazione - 12. Limiti -. Bibliografia

[1]. Il saggio di legificazione contenuto nella l. 18 giugno 2009 n. 69 contiene diverse previsioni normative che, in vario modo e con diverso approccio, recepiscono orientamenti di giurisprudenza ormai consolidati o in via di consolidarsi. Un ruolo preminente spetta, senz'altro, al principio di contestazione, recepito dal legislatore della riforma nel "nuovo" art. 115, comma I, c.p.c..

"salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita".

L'ultimo inciso («fatti non specificamente contestati») approda nell'art. 115 cit., per l'appunto, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 69/09 cit. la quale ha, di fatto, convalidato la giurisprudenza di Cassazione che, a partire dall'arresto a Sezioni Unite del 2002 (sentenza n. 761), ha affermato l'esistenza, nell'ordinamento processuale civile, di un onere di contestazione per le parti, legato ai fatti introdotti dall'altra2, ritenendo che il deficit di contestazione "rende inutile prove il fatto, poiché non controverso ... vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza".

Vi è chi, invero, già passato, autorevolmente scriveva che «dinanzi al magistrato non si va per tacere ma bensì per parlare, per far conoscere le proprie ragioni e i torti dell'avversario con dichiarazioni precise, positive e pertinenti alla lite» (L. Mortara). Il punctum pruriens involgeva, tuttavia, gli effetti che produceva il "silenzio" della parte costituita sulle affermazioni dell'altra. L'art. 115 novellato dà una risposta ora normativa poiché recepisce il principio per cui la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale relevatio ab onere probandi per il deducente (Sassani, 5)3. Vengono così recepiti gli insegnamenti di quella autorevole Dottrina che, già da tempo, aveva ritenuto che per la concreta determinazione del thema probandum, occorresse fare riferimento ad un principio tacito, ma non per questo meno importante, in tema di prova: per l'appunto, il principio di non contestazione. Secondo la dottrina citata, si tratta di un principio «di diuturna applicazione nelle controversie civili, di importanza essenziale per non rendere impossibile o comunque eccessivamente difficile l'onere probatorio delle parti ed in ispecie dell'attore, per evitare il compimento di attività inutili e quindi realizzare esigenze di semplificazione e di economia processuale»4.

[2]. Un primo dato di rilievo va evidenziato.

Il Legislatore ha scelto una precisa collocazione topografica del principio. Avrebbe, infatti, potuto inserirlo nel primo comma dell'art. 115 ovvero nel secondo.

La collocazione, nell'una o nell'altra volta, determina conseguenze rilevanti in punto di regime giuridico applicabile e, in specie, quanto al potere discrezionale del giudice al cospetto del fatto non contestato (o contestato genericamente).

115 Comma I

Il giudice deve porre a fondamento della decisione .....

115 Comma II

Il giudice può porre a fondamento della decisione ....

Ciò vuol dire che i fatti non contestati "DEVONO" essere posti a fondamento della decisione senza che residui discrezionalità per il giudicante, cosa che è consentita solo nel secondo comma dell'art. 115 c.p.c. La realtà è che la collocazione topografica depone nel senso di dovere ritenere "provati" i fatti non contestati e, cioè, farli confluire nel concetto di "prova" che è menzionato nel comma I dell'articolo in esame5.

Fatto non contestato = Fatto provato

Dalla qualificazione del fatto non contestato come fatto provato (alcuni specificano: perché pacifico6) deriva la "irreversibilità della originaria non contestazione, non in forza di una decadenza che non è scritta nella legge, ma in via di interpretazione sistematica (Vallebona, 2).

Giova, dunque, rilevare che il giudice che non porrà a fondamento della decisione un fatto non contestato incorrerà in error in procedendo per violazione dell'art. 115, comma I, c.p.c. E' quanto già affermava la Suprema Corte prima della legge 69/09 (v. Cassazione civile , sez. III, 05 marzo 2009 , n. 5356): "l'art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti".

Ancora più esplicitamente: il "fatto non contestato non ha bisogno di prova perchè le parti ne hanno disposto, vincolando il Giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza"7.

Sono, dunque, senz'altro corrette le osservazioni di chi, già in passato, ha esaminato l'istituto pervenendo alla conclusione per cui «la non contestazione è diretta all'attribuzione di efficacia probatoria (in questo caso di prova legale) a fatti non investiti dalla fase dell'accertamento probatorio; accertamento probatorio che, proprio in virtù dell'intervenuta non contestazione, si rivela superfluo»8.

Il fatto non contestato, pertanto, acquista l'efficacia tipica della prova legale.

[3]. La ratio del principio di non contestazione, tenuto conto dell'architettura generale della legge 69/2009, va ricercata nelle superiori esigenze di semplificazione del processo e di economia processuale, o anche, se si vuole, nella responsabilità o autoresponsabilità delle parti nell'allegazione dei fatti di causa9. Non si tratta, pertanto, di una sanzione10. Non deve ignorarsi, però, che la Cassazione più recente non ha esitato a ritenerlo protetto da rilievo costituzionale, quale strumento per garantire un "giusto processo". In particolare, Cass. civ. 24 gennaio 2007 n. 1540 (sez. tributaria) ha affermato che il c.d. "principio di non contestazione" - da intendersi correttamente come onere di contestazione tempestiva, col relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati, e, a fortiori, non contestati tout court - è invocabile anche nel processo tributario, sia perché questo, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, ha natura dispositiva come quello ed è anch'esso caratterizzato da un sistema di preclusioni, sia per la incidenza del principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. "Questo non può essere inteso soltanto come monito acceleratorio rivolto al giudice in quanto soggetto del processo, ma soprattutto al legislatore ordinario ed allo stesso giudice in quanto interprete della norma processuale - dovendo ritenersi che una lettura costituzionalmente orientata delle norme sul processo non possa mai prescindere dal principio in esame -, nonché alle parti, che, specie nei processi dispositivi, devono responsabilmente collaborare alla ragionevole durata del processo, dando attuazione, per quanto in loro potere, al principio di economia processuale e perciò immediatamente delimitando, ove possibile, la materia realmente controversa.

[4]. La riforma, comunque, recepisce il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la mancata contestazione di un fatto allegato dalla controparte comporta la sua ammissione, principio anche di recente difeso dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione Sezione Prima Civile n. 5191 del 27 febbraio 2008, Pres. Luccioli, Rel. De Chiara) e dalla giurisprudenza di merito. In proposito - acclarato che la non contestazione vale come comportamento processualmente rilevante se riferito a fatti e non all'applicazione di regole giuridiche - la sentenza delle Sezioni Unite n. 761 del 200211 facendo leva sull'onere del convenuto - previsto dall'art. 416 c.p.c., per il rito del lavoro, e dall'art. 167, primo comma, c.p.c. (come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353), per il rito ordinario - di prendere posizione, nell'atto di costituzione, sui fatti allegati dall'attore a fondamento della domanda, ha affermato che il difetto di contestazione di quei fatti ne implica l'ammissione in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato (Buffone, Profili .., 2).

E' opportuno evidenziare che a questa sistematica della materia - germinata dall'esame del rito nel processo del lavoro - sono seguiti ulteriori sviluppi, con l'affermazione del più ampio principio secondo cui "l'onere di contestazione tempestiva non è desumibile solo dagli artt. 167 e 416 c.p.c., ma deriva da tutto il sistema processuale, come risulta:

a) dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena;

b) dal sistema di preclusione, che comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa;

c) dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti;

d) infine, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.;

conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l'altra ha l'onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto (Cass. 12636/2005, preceduta da Cass. 3245/2003, riferita al solo processo del lavoro, e seguita da Cass. 1540/2007, che ha esteso il principio al processo tributario).

Alla descritta evoluzione della giurisprudenza di Cassazione, il Legislatore ha reputato di dover dare continuità, confermando, quindi, la sussistenza di un onere, per la parte costituita, di contestare tempestivamente i fatti allegati dalla parte avversaria, che altrimenti è esonerata dal fornirne la prova. L'orientamento recepito nell'art. 115 c.p.c. era stato, invero, respinto sia da una parte della giurisprudenza che da una parte della dottrina: e, tuttavia, sotto la volta del "giusto processo", come disegnato nell'art. 111 Cost., l'opzione avversa si rivela idonea a vulnerare sia la ragionevole durata del procedimento, sia la regola dell'economia.

Ed, invero, la stessa giurisprudenza di Cassazione a favore del principio della "non contestazione" non omette di rilevare come, i precedenti in distonia, si limitino a "confermare acriticamente il precedente orientamento (v. Cass. 2959/2002, 13830/2004, 5488/2006)", (così Cass. Civ. 5191/2008, già cit.).

Nel ventaglio dei fatti introdotti nel giudizio, dovrà dunque effettuarsi un distinguo: andranno a confluire nel thema probandum solo i fatti «beweisbedürftige» ovvero, secondo la dizione tedesca, quelli "bisognosi di prova": tali non sono i fatti non contestati che, in quanto ammessi, sono pacifici.

[5]. Il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio e produce un triplice effetto: un effetto per chi doveva contestare (e non l'ha fatto), un effetto per il deducente (colui che allega il fatto non contestato), un effetto per il giudice.

Per il contestatore: il principio comporta che i fatti allegati dalla parte avversaria, qualora non siano contestati, debbono essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione (si v. Cass. civ., sez. 2, sentenza n. 27596 del 20 novembre 2008, ove la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di accertamento dell'esistenza di una servitù di passaggio sul rilievo che gli attori non avevano allegato alcun fatto costitutivo del diritto stesso, senza tenere in adeguata considerazione che l'esistenza del diritto non era stata contestata dai convenuti e che l'unico oggetto del giudizio consisteva nello stabilirne l'estensione e le modalità di esercizio).

Per il deducente: questo sarà esonerato dall'onere della prova.

Per il giudice: avrà l'obbligo di ritenere il fatto provato senza svolgere istruttoria al riguardo. Alcuni commentatori reputano che, nonostante il disposto dell'art. 115, comma I, c.p.c., residui uno spazio di discrezionalità del Giudice nel valutare il fatto non contestazione. L'opinione è da respingere. Come si scrisse già, a commento delle Sezioni Unite 761/02, la non contestazione (per la dottrina citata: una particolare ipotesi di ammissione implicita) «non è rimessa alla valutazione caso per caso del giudice circa la effettiva incompatibilità logica tra impostazione difensiva del convenuto e negazione del fatto, ma viene ricavata una volta per tutte direttamente dalla legge, intesa nel senso della automatica equiparazione tra omessa o generica contestazione e ammissione del fatto non contestato» (Vallebona, 2).

Un problema diverso può, tutt'al più, riguardare l'eventuale contrasto tra fatto non contestato ed altre prove legali acquisite alla piattaforma probatoria (ad es. un documento acquisito ex art. 210 c.p.c. che si ponga in contrasto con la prova emergente dalla non contestazione). Ma tale impasse non va risolto svilendo l'efficacia probatoria del fatto non contestato bensì mediante corretta applicazione dell'art. 116, comma I12, c.p.c. e, cioè, valutando con prudenza l'impianto di prove acquisite. Ciò può comportare che il giudice si convinca nell'attribuire maggiore peso probatorio ad una prova piuttosto che ad un'altra (dovendo, però, motivare sul punto).

[6]. Quale è l'ultimo momento utile per contestare i fatti avversi? Parte della dottrina afferma essere le memorie di replica ex art. 183, comma VI, n. 213, ove si chiude il sipario sul panorama probatorio. La giurisprudenza, tuttavia, ha puntualizzato che l'onere di contestazione deve essere assolto nella prima difesa utile (Cass. civ. 27 febbraio 2008 n. 5191; Cass. civ. 21 maggio 2008, n. 13079). L'orientamento più recente della Cassazione si fonda sul dettato legislativo che indica in quali atti il convenuto deve prendere posizione sulle deduzioni dell'attore. Si tratta, innanzitutto, della comparsa di risposta ex art. 167 c.p.c.: "nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda".

Deve, allora, ritenersi che il principio introdotto (rectius: riconosciuto) nell'art. 115 c.p.c. debba essere coordinato con le regole già esistenti e, dunque, l'onere di contestazione vada adempiuto con la prima difesa utile.

Va ricordato, comunque, che la questione (con riferimento al rito del lavoro) è stata risolta nella motivazione della sentenza Sez. Un. 761 del 23 gennaio 2002 che ha particolarmente approfondito la questione esponendo le argomentazioni fondamentali sulle quali si è basata, poi, la nuova giurisprudenza.

In detta decisione infatti si legge: "...Il menzionato difetto di contestazione...omissis... A) se concerne fatti costitutivi del diritto, si coordina al potere di allegazione dei medesimi e partecipa della sua natura, sicchè simmetricamente soggiace agli stessi limiti apprestati per tale potere; in altre parole, considerato che l'identificazione del tema decisionale dipende in pari misura dall'allegazione e dall'estensione delle relative contestazioni, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio ritenere che un sistema di preclusioni in ordine alla modificabilità di un tema siffatto operi poi diversamente rispetto all'uno o all'altro dei fattori della detta identificazione".

La dottrina14, peraltro, ha osservato che «la contestazione tardiva (vale a dire la contestazione successiva ad un fatto originariamente incontestato), in quanto comportamento che può provenire esclusivamente dalla parte (che inizialmente non aveva contestato), può essere assimilata all'eccezione in senso stretto»: conseguentemente, in considerazione di quanto previsto dagli art. 345, 2° comma, e 437, 2° comma, c.p.c., la contestazione successiva di fatti rimasti incontestati nel giudizio di primo grado deve ritenersi inammissibile in appello, sia nel processo del lavoro che nel rito ordinario (salva la rimessione, oggi ex art. 153 c.p.c.).

[7]. La non contestazione va considerata come comportamento processualmente rilevante se riferito a fatti e non all'applicazione di regole giuridiche: le questioni di diritto sono estranee all'applicazione dell'art. 115 c.p.c..

Fermo restando, poi, il comune presupposto della rilevanza limitata ai casi di non contestazione di fatti, occorre nondimeno osservare come secondo la giurisprudenza sinora formatasi le conseguenze variano in relazione al tipo dei fatti di cui trattasi, come suggerirebbe il testuale tenore delle norme, ex artt. 115, 167 e 416 c.p.c., istitutive dell'onere suddetto, lette alla luce di rilievi sistematici sulla struttura del processo in cui esse si inseriscono.

Si afferma, dunque, che il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato: per i fatti c.d. secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituirebbe, invece, argomento di prova ai sensi dell'art. 116, secondo comma, c.p.c..

Occorrerebbe, allora, distinguere i fatti costitutivi del diritto, dalle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi: posta tale distinzione, la giurisprudenza richiamata conclude che nei «fatti posti dall'attore a fondamento della domanda», dei quali appunto è menzione nelle dette norme, è palesemente riconoscibile il connotato della prima categoria di fatti, potendosi della funzione fondante rispetto alla pretesa accreditare esclusivamente i fatti giuridici costitutivi della medesima. Per i fatti secondari, il difetto di contestazione potrà essere utile al giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma cod proc. civ. (Cassazione civile , sez. un., 23 gennaio 2002 , n. 761).

Può ritenersi che la riforma abbia esteso il principio di non contestazione anche ai fatti secondari? Per un verso, dando credito al filone metodologico, deve ritenersi che il legislatore abbia recepito non più e non meno di quanto era già presente nella giurisprudenza: ed allora la differenza tra fatti principali e fatti secondari conserverebbe valenza sistematica.

Per altro verso, le norme che hanno costituito l'emersione a valle del principio a monte, sono rimaste immutate (in particolare, l'art. 167 c.p.c. che continua a individuare, come fatti da contestare, quelli posti a fondamento della domanda, cioè i fatti primari).

In realtà deve propendersi per una estensione del principio a tutti i fatti.

Il riferimento a "quelle norme" era, per l'appunto, determinato dalla carenza di altri referenti normativi. Ma, allo stato, il principio di non contestazione è stato tipizzato dal legislatore in via generale e senza porre l'accento sui soli fatti primari.

Ciò è anche in linea con lo spirito della riforma e recepisce quelli che erano i suggerimenti della migliore dottrina. Questa affermava che la distinzione tra valore della non contestazione dei fatti principali e valore della non contestazione dei fatti secondari non reggesse poiché la non contestazione «opera allo stesso modo sia riguardo ai fatti principali che riguardo ai fatti secondari»15 (v. al riguardo, comunque, Cass. 17 aprile 2002, n. 5526, Foro it., 2002, I, 2017).

Il principio di contestazione, pertanto, si applica sia ai fatti primari che secondari.

[8]. Quale contenuto deve avere la contestazione per impedire l'ammissione dei fatti?

La disposizione è chiara: determinano un vicolo per il giudice "i fatti non specificatamente contestati". Ciò vuol dire che la contestazione generica equivale a difetto di contestazione.

La contestazione, per essere efficace, deve essere "specifica". Ecco, allora, un elenco di formule che sono oggi da considerare contestazioni generiche e, perciò, producono gli effetti di cui all'art. 115, comma I, c.p.c.

Contestazioni GENERICHE

(equivalenti a difetto di contestazione)

La parte impugna e contesta quanto ex adverso dedotto

Le deduzioni avverse sono sfornite di prova

Quanto dedotto da parte avversa è falso e non corrisponde a verità

Si contesta sotto ogni aspetto quando dedotto da parte avversa

La domanda è inammissibile, improcedibile, improponibile e, comunque, infondata in fatto e diritto

Conferma di quanto sin qui esposto si ricava dalla recentissima Cass. civ. 5356/2009:

«l'assunto di aver "...impugnato e contestato la domanda formulata dalla controparte perchè infondata in fatto ed in diritto" riguarda una affermazione difensiva assolutamente generica»

E', al contrario, specifica una contestazione che contrasta il fatto avverso con un altro fatto diverso o logicamente incompatibile oppure con una difesa che appare seria per la puntualità dei riferimenti richiamati. Un esempio può essere chiarificatore.

(Attore: Caio; Convenuto: Tizio)

Attore: Tizio ha colpito Caio al volto e gli ha provocato la rottura del setto nasale

Contestazione: Ipotesi 1 - Convenuto: Si impugna e contesta quanto dedotto da Caio

Contestazione: Ipotesi 2 - Convenuto: Tizio non ha colpito al volto Caio ma all'addome, per cui la rottura dei denti non è stata causata dal convenuto

Contestazione: Ipotesi 3 - Convenuto: Tizio non ha colpito Caio che è stato colpito sa Sempronio.

Contestazione: Ipotesi 4 - Convenuto: NEGO di aver colpito Caio al volto e di avergli provocato la rottura del setto nasale (firm. Caio)

La contestazione n. 1 è generica. Le contestazioni ai numeri 2 e 3 sono specifiche.

La narrazione, da parte del convenuto, di fatti logicamente incompatibili con quelli sostenuti dall'attore è equiparabile alla contestazione specifica? La dottrina16 intervenuta sul punto esprime opinione favorevole e la soluzione è del tutto condivisibile per i motivi addotti a sostegno della tesi: se la ratio della norma è quella di salvaguardare la "struttura dialettica a catena" , a tanto si perviene anche con la deduzione di fatti incompatibili con il narrato dell'attore.

Deve precisarsi che il principio di non contestazione deve necessariamente essere coordinato con il principio di vicinanza della prova: e, cioè, la specificità della contestazione varierà a seconda della prossimità del contestatore al fatto. Non è, infatti, sempre possibile contestare in modo dettagliato e specifico: si pensi ai casi in cui il fatto accade sol perché narrato dall'attore, là dove il convenuto - in passato - negava la verità del fatto e si affidava all'onere della prova gravante sull'avversario. Si pensi al caso in cui un soggetto assuma di essere caduto, in un determinato giorno, di una determinata ora, presso una insidia del manto stradale. Come può l'ente convenuto contestare specificamente la dinamica dell'accaduto? E' chiaro che in casi del genere il giudice dovrà alleggerire il peso dell'onere di contestazione.

Va, in tal senso, recepito quanto già sostiene la giurisprudenza nel rito lavoro, posto che, allo stato, la non contestazione è principio comune ai due riti.

Quanto alla ipotesi n. 4 di contestazione, una querelle, in argomento, ha investito in passato l'efficacia - ai fini dell'assolvimento dell'onere di contestazione - della mera negazione del fatto. Si è sostenuto, infatti, che i requisiti di precisione e non genericità prescritti dalla legge non escludono la sufficienza della "mera secca negazione del fatto", da qualificare come modo estremamente preciso di prendere posizione. L'opinione non può essere condivisa. Come ha scritto la dottrina, al riguardo, aderendo alla tesi suaccennata, la rilevanza pratica dell'onere di non contestazione «è destinata a scemare rapidamente, poiché i legali prudenti, nel difendere il convenuto, si adegueranno a quanto richiesto e provvederanno a negare esplicitamente i fatti affermati dal ricorrente che non intendono dare per pacifici» (Vallebona, 6). Ed, allora, una contestazione non può dirsi specifica ove si limiti a negare il fatto avverso.

[9]. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 15.04.2009 n. 8933, in particolare, ribadisce che "negare il fatto avverso", tout court, equivale a contestazione generica ma ribadisce, anche, tali altri principi pur di grande importanza:

  1. contestare sostenendo che la parte avversaria non ha provato i fatti dedotti ed allegati costituisce una contestazione meramente apparente, come tale equivalente alla "non contestazione":
  2. in tanto può operare il principio di non contestazione in quanto le circostanze oggetto della contestazione siano «nella sfera di conoscenza e di disponibilità del contestatore»;
  3. la contestazione generica, in presenza di fatti ritualmente allegati dalla controparte in modo preciso e puntuale, va equiparata alla mancanza di contestazione,
  4. per potersi assegnare alla contestazione un effettivo rilievo processuale devono, con essa, venire richiamate circostanze fattuali a tal fine pertinenti e significative,
  5. l'adempimento da parte dell'attore dell'onere di individuare con precisione nel libello introduttivi i fatti allegati è necessario al fine di consentire un'efficace contestazione di essi da parte del convenuto,
  6. l'onere di contestazione va valutato tenendo conto anche della concreta possibilità del convenuto di avere conoscenza specifica dei fatti allegati.

[10]. E' opportuno precisare che i principi sin qui richiamati, non riguardano il processo in contumacia17: se il convenuto non si costituisce, i fatti affermati dall'attore non si reputano "non contestati", poiché detta regola del processo contumaciale "è in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito il valore di confessione implicita" (Corte Costituzionale, sentenza 12 ottobre 2007 n. 340).

Ed, infatti, l'art. 115 c.p.c. fa riferimento alla "parte costituita".

Autorevole dottrina, in tal senso, ha da data risalente affermato che il principio in questione non può mai trovare applicazione in caso di contumacia consistendo la stessa in «un comportamento equivoco e non concludente»18.

Ma cosa accade in caso di litisconsorzio con un convenuto contumace? Si pensi al tipico caso dei sinistri stradali (ove, in genere, il proprietario del mezzo resta contumace).

A parere di chi scrive dovrebbe propendersi per l'applicazione dei medesimi teoremi che la Cassazione ha costruito per la confessione nel giudizio liticonsortile. Al riguardo, le S.U. (sentenza 5.5.2006, n. 10311), in ipotesi di litisconsorzio necessario hanno affermato che, ai sensi dell'art. 2733, c. 3, c.c., la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorzi è liberamente apprezzata dal giudice, in relazione a tutti i litisconsorzi e non solo in relazione ai non confitenti. Hanno precisato, in particolare, che i rapporti non possono essere regolati diversamente tra le parti del giudizio essendo i fatti gli stessi.

La circostanza che uno solo dei litisconsorti ammetta il fatto, non contestandolo, non può, peraltro, rendere pacifico quel fatto in presenza di un convenuto contumace, poiché si frustrerebbero le sue ragioni ed il suo diritto di difesa che si esplica nella impossibilità di far conseguire dalla contumacia effetti pregiudizievoli.

Deve, dunque, propendersi per il mero argomento di prova ovvero per il fatto che può essere liberamente apprezzato dal giudice.

[11] Si è scritto, a commento del nuovo art. 115 c.p.c., che ad una prima lettura "la nuova norma sembra addossare l'onere di contestazione - e tutte le conseguenze che derivano dal suo mancato assolvimento - alla sola parte convenuta" (Corrado, 1).

L'assunto non può essere condiviso. La lettera della disposizione è chiara nel riferirsi, per precisa scelta, alla "parte costituita", con ciò riferendosi non solo al convenuto ma anche all'attore, ancor più, ad esempio, laddove sia stata proposta domanda riconvenzionale. Si vuol dire che l'onere di contestazione è bilaterale.

"Il principio della parità di trattamento delle parti del processo impone di applicare la affermata equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico anche ai fatti fondanti le eccezioni del convenuto e che il ricorrente deve contestare alla prima udienza" (Vallebona, 5).

Stesso dicasi per l'eventuale terzo chiamato in causa.

Al riguardo va precisato che l'intervento del terzo non trova alcuna preclusione nel difetto di contestazione delle altre parti: ove il fatto sia ad esso comune, questo, costituendosi, può contestare le circostanze fattuali che trova in giudizio, sottraendole dall'alveo dei fatti non contestati.

Si pensi, ad esempio, al garante che contesta l'an della responsabilità ove il garantito aveva contestato solo il quantum debeatur.

Va, in ultimo, precisato che la struttura dialettica a catena del processo civile fa si che divengano non contestati anche i fatti la cui ammissione è compatibile con talune contestazioni della parte. Del pari la contestazione di un fatto si estende a quelli incompatibili con la stessa.

Ad esempio.

Se Tizio contesta di avere investito Caio, sostenendo che ad investirlo sia stato Sempronio, la contestazione si estende al quantum, anche se sul punto nulla è stato detto, poiché la contestazione del fatto a monte è incompatibile con l'ammissione del fatto a valle. Al contrario, se Tizio contesta il danno subito da Caio, sostenendo che questi non avesse le cinture, è chiaro che non viene in contestazione il fatto del sinistro, la cui ammissione è compatibile con il contestare le sole conseguenze dannose dell'illecito.

[12]. Un limite all'applicazione del principio di contestazione va, comunque, rinvenuto nelle procedure in cui vengono in rilievo diritti indisponibili della persona ovvero interessi per cui è posto a garanzia e controllo il giudice: tipico il caso dei procedimenti in materia di famiglia ove siano coinvolti minori. Il fatto che i genitori, ad esempio, lascino "pacifico" un fatto non impedisce al giudice di svolgere comunque istruttoria sullo stesso ove l'interesse superiore del minore lo richieda.

Il presupposto logico-giuridico dell'applicazione del principio di non contestazione è, dunque, rappresentato dai «fatti disponibili»

Aderendo, dunque, alla teorizzazione della migliore dottrina, deve ritenersi che il principio di non contestazione non trovi applicazione:

  1. nei processi relativi a diritti indisponibili: in queste controversie le parti non possono, con il loro contegno processuale, vincolare in alcun modo la decisione del giudice.
  2. Per i contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam: in tal caso, il potere del giudice di rilevare d'ufficio la nullità prevale (ed eventualmente inibisce) l'efficacia vincolante della non contestazione (si pensi ai contratti della Pubblica Amministrazione).
  3. Nel processo contumaciale: poiché la ficta confessio è incompatibile con il nostro sistema processuale (come disegnato dalla Costituzione).

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Vallebona, L'onere di contestazione nel processo del lavoro in www.judicium.it.

Vidiri, La contumacia ed il principio di non contestazione nel processo del lavoro in Mass. Giur. Lav., 2005, 6, 494.

________________

1 Tratto da: Buffone G., La riforma del processo civile, Buffetti editore, 2009. Il testo è stato, da ultimo, discusso in occasione del "Seminario di approfondimento del 18 settembre 2009, Varese: La riforma del processo civile", organizzato dal Tribunale di Varese.

2 Ma va precisato: originariamente solo per il rito del lavoro.

3 V. Proto Pisani, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazione nei processi a cognizione piena (nota a Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2006, n. 6092; Cass. civ., sez. lav., 6 febbraio 2006, n. 2468; Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2006, n. 2035) in Foro It., 2006, 11, 1, 3143.

4 La dottrina citata è Proto Pisani La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 158 ss.; v. anche Lezioni di diritto processuale civile, 4a ed., Napoli, 2002, 108 s.

5 Per alcuni, la non contestazione è da equiparare alla ammissione implicita.

6  Vallebona, L'onere di contestazione nel processo del lavoro in www.judicium.it.

7 Cassazione civile , sez. III, 21 maggio 2008 , n. 13078.

8 Sicuramente da leggere integralmente: C. M. Cea, La tecnica della non contestazione nel processo civile in Giusto processo civile, 2006, fasc. 2, 173 ss.

9 così già Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995., 262 ss.; della stessa idea Proto Pisani.

10 Vallebona, L'onere di contestazione nel processo del lavoro in www.judicium.it.

11 Crea, Il principio di non contestazione al vaglio selle sezioni unite (nota a Cass., sez. un., 23 gennaio 2002 n. 761) in Foro It., 2002, I, 2017.

12 Come correttamente rileva, in dottrina, F. Danovi.

13 Alpa, Mariconda, Codice civile commentato, 2009, IV, 98.

14 Cea, Commento della sentenza SS.UU. 761/2002 in Foro it., 2002, I, 2017 ss., 2026.

15 Il già più volte citato Proto Pisani il quale rievoca, anche, Carnelutti, La prova civile, Roma, 1915, 16 ss..

16 Viola, Il nuovo principio di non contestazione nella riforma del processo civile.

17 Vidiri, La contumacia ed il principio di non contestazione nel processo del lavoro in Mass. Giur. Lav., 2005, 6, 494.

18 E' l'opinione di Verde.

 


DANNO NON PATRIMONIALE E DANNO ESISTENZIALE

Il danno c.d. esistenziale non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno non patrimoniale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, richiedendosi, nei casi in cui sia risarcibile come danno non patrimoniale, che sussista da parte del richiedente la allegazione degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio. (Cassa con rinvio, Milano, 21/06/2006)

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16-02-2009, n. 3677

Svolgimento del processo

Il Comune di (OMISSIS) impugnava davanti alla Corte d'appello di Milano la statuizione emessa dal locale Tribunale, con cui erano state accolte la maggior parte delle domande proposte da D.D. e F.P., rispettivamente dirigente amministrativo e dirigente dei servizi alla persona presso il predetto Comune, i quali avevano lamentato la illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare e poi di revoca dell'incarico dirigenziale, adottato dal Sindaco, nonchè la illegittimità della delibera della Giunta comunale, prima di dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità dall'agosto 2002.

I dirigenti avevano eccepito la mancata individuazione dei motivi della revoca dell'incarico ed il mancato rispetto della relativa procedura; avevano lamentato altresì:

a) la sospensione dell'incarico protrattasi per oltre due mesi;

b) la dequalificazione a seguito dell'incarico dirigenziale a staff, non avendo mai svolto alcuna attività;

c) la nullità della procedura di modifica della dotazione organica dei dirigenti e della connessa procedura di mobilità, cui erano stati sottoposti, per la mancata osservanza dell'iter previsto sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva, sia dall'accordo integrativo decentrato del Comune di (OMISSIS), anche perchè la nuova dotazione organica aveva previsto la creazione di due posizioni di staff poi eliminate a distanza di soli due mesi;

d) che detti atti amministrativi di organizzazione essendo illegittimi, avrebbero potuto essere disapplicati dall'AGO, con conseguente venir meno degli atti di esecuzione e cioè della dichiarazione di eccedenza e della successiva collocazione in disponibilità;

e) la illegittimità della procedura di disponibilità di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 33 (TU);

f) il carattere comunque discriminatorio dei provvedimenti presi nei loro confronti, dovuti alla loro diversa collocazione politica rispetto alla nuova giunta; chiedevano quindi dichiararsi la illegittimità dei suddetti atti di gestione del rapporto, previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti; la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni patrimoniali, e alla lesione della loro professionalità, dei danni esistenziali, dei danni all'immagine e del danno morale.

La Corte d'appello, con la sentenza in epigrafe indicata, confermava la illegittimità della revoca degli incarichi dirigenziali, nonchè la illegittimità del collocamento in disponibilità, confermava la misura del danno patrimoniale e del danno all'immagine come liquidato dal primo Giudice, riduceva il danno alla professionalità al 50% di quanto determinato dal Tribunale per il D. ed all'80% per il F., rigettava la domanda di risarcimento dei danni morali, mentre, disattendendo l'appello incidentale dei dirigenti, rigettava la domanda di reintegrazione o riammissione in servizio nelle precedenti mansioni dirigenziali.

La Corte territoriale respingeva preliminarmente l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune, sul rilievo che la revoca dell'incarico dirigenziale rientra nella giurisdizione dell'AGO ai sensi della previsione espressa dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, mentre, quanto agli atti amministrativi presupposti, cd. di macro organizzazione, come quelli relativi alla approvazione della nuova dotazione organica dell'ufficio, i dirigenti ne avevano chiesto solo la disapplicazione ai fini della declaratoria di illegittimità del provvedimento in disponibilità.

Quanto alla legittimità della sospensione prima e della revoca poi dell'incarico dirigenziale, la Corte adita negava la esistenza degli addebiti posti a fondamento del provvedimento, e ne affermava il carattere discriminatorio per motivi politici e sindacali. Rilevato poi che non era stata impugnata la sentenza di primo grado sulla esistenza del demansionamento seguito ai provvedimenti di sospensione e revoca dell'incarico dirigenziale e di successiva collocazione a staff, la Corte territoriale passava all'esame dei provvedimenti di messa in disponibilità, di cui il Comune sosteneva la legittimità. La Corte - esaminati gli atti che avevano dato luogo alla messa in disponibilità, e precisamente le delibere n. 91 e n. 119 del 2002 di modificazione della dotazione organica, con i quali era stata decisa la eliminazione della posizione di staff in cui il D. ed il F. erano stati collocati da ultimo, e quindi la riduzione delle posizioni dirigenziali ad una sola, e cioè a quella preposta al settore tecnico - ne affermava la illegittimità per vari profili: sia perchè posta in essere in violazione della L. n. 127 del 1997, art. 6, comma 14, che impone la rilevazione dei carichi di lavoro come presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche (disposizione non abrogata dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 274 TU), sia perchè detta variazione non era stata disposta in coerenza con la programmazione triennale del fabbisogno di personale, come prescritto dalla L. n. 449 del 1997, art. 39, sia perchè non vi era stata una specifica concertazione con i rappresentati sindacali della dirigenza pubblica ai sensi dell'art. 4 del CCDI, mentre non era sufficiente la prova, fornita dal Comune, di avere effettuato una comunicazione alle OO.SS. territoriali confederali e di avere sottoscritto con le RSU e le OO.SS., in data 20 maggio 2002, un verbale sindacale in cui si dava atto di una concertazione positiva sul nuovo regolamento comunale. La illegittimità degli atti presupposti si riverberava sui conseguenti provvedimenti di eliminazione delle posizioni dirigenziali a staff, in cui il D. ed il F. erano stati collocati e della successiva collocazione in disponibilità. Questi atti riguardanti i due dirigenti erano quindi illegittimi, ma non nulli, non essendo stati posti in essere per motivi discriminatori, avendo l'operazione di riorganizzazione interessato una serie di posizioni ed essendo riservata alla discrezionalità amministrativa, il che impediva l'accoglimento della domanda di riammissione nella precedenti mansioni, non tanto perchè vige un generale divieto di applicazione dell'art. 2103 c.c., ma perchè il periodo di messa in disponibilità era ormai praticamente concluso alla data della decisione di primo grado, scadendo il termine di 24 mesi il 10 agosto 2004, con la conseguenza che l'inadempimento contrattuale era ormai suscettibile solo di tutela risarcitoria. Tuttavia all'epoca di presentazione del ricorso il rapporto di lavoro non era ancora cessato, essendo la cessazione avvenuta per il F. solo alla scadenza dei 24 mesi di collocazione in disponibilità, per cui solo da tale data avrebbe potuto sorgere l'interesse dei due dirigenti ad impugnare il recesso ed a chiedere la condanna ripristinatoria.

Quanto al risarcimento dei danni, confermato il diritto alle differenze retributive tra quanto spettante nella precedente posizione dirigenziale e quanto percepito, sia per il periodo di collocazione a staff dal primo aprile al 31 luglio 2002, sia per tutto il periodo di 24 mesi di messa in disponibilità, la Corte, in parziale accoglimento dell'appello del Comune, rigettava le domande di risarcimento del danno morale e, ritenuta eccessiva la determinazione del danno alla professionalità, la riduceva al 50% delle retribuzioni di fatto per il D. e all'80% per il F., sul rilievo che il primo, nel 2004, aveva trovato altra collocazione dirigenziale e che aveva svolto un'altra collaborazione per l'intero anno 2003, mentre il secondo aveva svolto per minor tempo un'attività lavorativa limitata.

Avverso detta sentenza il Comune di (OMISSIS) propone ricorso con tre motivi nei confronti del D. che a sua volta ha proposto ricorso incidentale con cinque motivi illustrati da memoria, cui il Comune ha risposto con controricorso.

Il F. ha proposto ricorso avverso la medesima sentenza con otto motivi, ed il Comune di (OMISSIS) ha resistito con controricorso e ricorso incidentale con cinque motivi illustrati da memoria, cui il F. ha risposto con controricorso.

Il Comune ha presentato anche memoria.

MOTIVI DELLA  DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione dei quattro ricorsi ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale proposto dal Comune di (OMISSIS) nei confronti del D. si denunzia la carenza di giurisdizione dell'AGO in relazione agli atti amministrativi di adozione di una nuova dotazione organica e di approvazione del nuovo regolamento comunale degli uffici di cui alle delibere 91 e 119 del 2002, nell'esercizio del potere conferito dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2 (TU), in applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1.

Sostiene il Comune ricorrente che, essendo stato impugnato l'atto di determinazione del nuovo organico del personale, in applicazione della normativa sopra indicata, dovrebbe essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo anche in relazione agli effetti riflessi ed indiretti del medesimo atto (la eliminazione della dirigenza a staff e della messa in disponibilità).

Il motivo attinente alla giurisdizione non è fondato.

1. il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 devolve al giudice ordinario in funzione del giudice del lavoro "tutte" le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A. ... ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi".

Ne consegue, com'è stato già affermato (tra le tante Cass. 13169 del 5 giugno 2006) proprio in tema di variazione della pianta organica di un ente pubblico, che, in materia di lavoro pubblico privatizzato, dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1, risulta che non è consentito al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione dell'atto presupposto, atteso che, in tutti i casi nei quali vengano in considerazione atti amministrativi presupposti, ove si agisca a tutela delle posizioni di diritto soggettivo in materia di lavoro pubblico, è consentita esclusivamente l'instaurazione del giudizio davanti al giudice ordinario, nel quale la tutela è pienamente assicurata dalla disapplicazione dell'atto e dagli ampi poteri riconosciuti a quest'ultimo dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 2.

Non si dubita che in forza del rapporto di lavoro "privatizzato" intercorso con il Comune la posizione fatta valere dal D. e dal F. abbia la consistenza del diritto soggettivo e che tutte le controversie relative agli atti di gestione del rapporto rientrino nella giurisdizione dell'AGO. Nella specie i due dirigenti si dolgono direttamente degli atti di gestione del rapporto - e cioè della revoca degli incarichi dirigenziali e poi, a seguito della soppressione, di tutte le posizioni dirigenziali, della dichiarazione di eccedenza e della successiva messa in mobilità - rispetto ai quali il provvedimento di variazione della pianta organica del Comune era evidentemente l'atto presupposto degli atti di gestione medesimi. I dirigenti chiedono quindi, non già l'annullamento, ma la disapplicazione, sostenendone la illegittimità, di questo atto presupposto, al limitato fine di sottrarre fondamento ai successivi atti di gestione del rapporto di lavoro.

1.2. Il Comune invoca invero alcune pronunzie di questa Corte con cui, in relazione alle variazioni della pianta organica dell'ente pubblico, o comunque in relazione ad atti organizzativi di carattere generale, è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo. In quei casi, però, contrariamente a quanto si verifica nella specie, gli atti organizzativi non incidevano direttamente su atti di gestione del rapporto di lavoro, perchè, pur pregiudicando in qualche modo la posizione dei lavoratori, avevano sui singoli rapporti solo efficacia riflessa.

Ed infatti con l'ordinanza n. 21592 dell'8 novembre 2005 si è affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad un ricorso proposto dalle associazioni sindacali che avevano impugnato un regolamento della Regione Lazio, in materia di inquadramento del personale, il quale aveva consentito il conferimento della qualifica dirigenziale a numerosi dipendenti. E' evidente che in tal caso, in primo luogo, la posizione delle OO.SS. non era di diritto soggettivo, ed inoltre il regolamento non aveva direttamente inciso sui singoli rapporti di lavoro, ma spiegava su di essi solo una incidenza riflessa, di talchè nei confronti del medesimo regolamento erano configurabili solo situazioni di interesse legittimo.

Nello stesso senso, con l'ordinanza n. 15904 del 13 luglio 2006, è stata affermata la giurisdizione amministrativa in un caso in cui alcuni dipendenti del Ministero dell'Istruzione, inquadrati nei profili professionali di assistente amministrativo, avevano impugnato l'organico provinciale dell'ATA per l'anno scolastico 2003/2004, e ne avevano chiesto l'annullamento, asserendo che gli stessi erano inficiati nella parte in cui avevano disposto una riduzione di fatto degli organici, in misura rilevante e non prevedibile, così ledendo le loro legittime aspettative alla chiesta mobilità presso altri Istituti scolastici della Provincia. Anche in questo caso, dunque, il provvedimento organizzativo di carattere generale non incideva direttamente sui rapporti di lavoro, essendo dedotta solo una lesione di "aspettative".

Ed ancora, nel caso di cui all'ordinanza n. 8363/2007, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in una fattispecie in cui veniva contestato un atto organizzatorio consistente nella delibera della Giunta comunale di modifica del regolamento del personale, con la previsione della possibilità di procedere alla copertura di un posto vacante di dirigente mediante stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato.

In tutti questi casi dunque il provvedimento amministrativo non veniva in considerazione quale atto presupposto della gestione del rapporto di lavoro, perchè il nuovo modulo organizzativo così introdotto non incideva direttamente sulla posizione del singolo dipendente, ma su queste aveva solo una efficacia indiretta e, d'altra parte, il pregiudizio di cui astrattamente avrebbero potuto risentire poteva essere eliminato, nelle fattispecie sopra ricordate, non già dalla disapplicazione, ma dall'annullamento vero e proprio del provvedimento amministrativo.

In osservanza alla nuova formulazione dell'art. 384 c.p.c. va dunque affermato il principio di diritto per cui "Le controversie concernenti gli atti di organizzazione dell'amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, e sono passibili di disapplicazione, in tutti i casi in cui costituiscano provvedimenti presupposti di atti di gestione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente". 2. Con il secondo motivo si denunzia la violazione degli artt. 4 CCDI settore dirigenti e dell'art. 25, commi 3, 4, e 5, dell'art. 26 comma 3, 7 e 11 del CCNL comparto regioni enti locali settore dirigenti. Si sostiene che l'art. 4 del CCDI prevede come oggetto di concertazione le variazioni della dotazione organica della dirigenza, nel caso di cui agli artt. 25, commi 3, 4, e 5 e 26, in particolare del comma 3 del CCNL. Tuttavia, nè l'art. 25, nè l'art. 26 riguarderebbero il caso di specie; inoltre l'art. 26 prende in considerazione la dotazione organica e la riorganizzazione per l'accrescimento dei livelli qualitativi e quantitativi dei servizi esistenti con ampliamento delle competenze, mentre, nella specie, la nuova dotazione organica aveva condotto ad un decremento del numero dei dirigenti, di talchè non verrebbero in applicazione le ipotesi in cui è prevista la concertazione, ma quelle in cui è prescritta solo la preventiva informazione, che era stata data il giorno 27 marzo 2003. Inoltre, le rappresentanze sindacali erano state convocate per la concertazione che si era tenuta all'esito del rinvio del precedente incontro del 20 maggio 2002; ed ancora, per le eccedenze di personale inferiori alle 10 unità non sarebbe necessaria la concertazione, ma solo la informativa (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 33, comma 1 e art. 7 CCNL dirigenti).

Neppure questo motivo merita accoglimento dal momento che la contrarietà alla legge della delibera di variazione della dotazione organica dei dirigenti adottata dal Comune era stata ravvisata, dalla sentenza impugnata, in forza di una pluralità di argomentazioni, e quindi sulla base di molteplici rationes decidendi, su alcune delle quali non sono state svolte censure. Ed infatti non è stata censurata la contrarietà della delibera nè alla L. n. 127 del 1997, art. 6, comma 14 (che prescrive, per i comuni con più di quindicimila abitanti, la rilevazione dei carichi di lavoro quale presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche), nè la contrarietà alla L. n. 449 del 1997, art. 39, comma 1 (che obbliga gli organi di vertice delle amministrazioni alla programmazione triennale del fabbisogno di personale).

Ne consegue che la statuizione sulla illegittimità del provvedimento trova conferma sulla base dei punti non impugnati.

Dal rigetto di tale secondo motivo discende quindi la irrevocabilità della dichiarazione di contrarietà alla legge delle delibere di variazione dell'organico dei dirigenti nn. 91 e 119 del 2002. 3. Con il terzo mezzo si censura la sentenza per violazione degli artt. 2697 e 1223 c.c., per mancata prova sulla esistenza del danno esistenziale e quindi la erroneità della statuizione sul riconoscimento del danno all'immagine ravvisato dalla Corte di Milano, in quanto derivante in re ipsa dalla dequalificazione, senza allegazione, nè prove della sua esistenza da parte del richiedente che ne sarebbe onerato.

Neppure questo motivo è fondato.

Va premesso che, riguardo alla posizione del D., il Comune ricorrente non ha censurato la sentenza nella parte in cui ha affermato la illegittimità dei provvedimenti di sospensione prima e di revoca poi dell'incarico dirigenziale: rimane quindi irretrattabile la statuizione che ha negato l'inadempimento del dirigente e quindi la invalidità della collocazione a staffe dei successivi atti di dichiarazione di eccedenza e di messa in disponibilità.

In questo contesto la Corte territoriale ha riconosciuto un solo risarcimento del danno non patrimoniale, ossia il danno all'immagine, fondando la statuizione su dati certi, costituiti dalla vicenda di cui il D. era stato oggetto: prima la sospensione cautelare per due mesi dall'incarico dirigenziale e successivamente la revoca, con collocazione a staff (dove nessuna funzione gli era stata affidata, circostanza non contestata dal Comune) e quindi la dichiarazione di eccedenza e la collocazione in disponibilità. Non si tratta quindi di pregiudizio di carattere soggettivo, che, come dagli ultimi arresti giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione e prova, ma di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda giudiziaria posta all'esame della Corte territoriale.

Il ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D. va quindi integralmente respinto.

4. Va esaminato a questo punto il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del F., essendo preliminare sotto il profilo logico.

Con il primo motivo il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell'AGO, motivo che va respinto per le considerazioni già svolte al punto 1.

Parimenti va rigettato il secondo motivo (violazione dell'art. 4 CCDI dirigenti e dell'art. 25 commi 3, 4 e 5, dell'art. 26 comma 3, dell'art. 7 e 11 del CCNL comparto regioni enti locali e difetto di motivazione) in quanto analogo a quello già dedotto con il ricorso principale nei confronti del D..

Con il terzo mezzo si lamenta difetto di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto acclarata la discriminazione a danno del F., perchè le prove testimoniali dimostrerebbero che costui non aveva partecipato ad alcune riunioni e che il direttore generale aveva avuto contatti diretti con il personale, mentre, sostiene il Comune, la mancata precisazione dei tempi starebbe a dimostrare che ciò si era verificato nel periodo di sospensione e in quello immediatamente successivo di revoca dell'incarico dirigenziale.

Neppure questo motivo merita accoglimento, in quanto tendente non già ad evidenziare incoerenze e mancata considerazione di circostanze decisive da parte della sentenza impugnata, ma a sollecitare un diversa riconsiderazione dei fatti, dal momento che la dedotta mancanza di motivazione sulle date, non vale a smentire le circostanze poste a base della statuizione: sospensione per due mesi dall'incarico dirigenziale, successiva revoca e collocazione a staff senza assegnazione di alcuna funzione, abolizione delle posizioni di staff: dichiarazione di eccedenza e di collocazione in disponibilità, tutto ciò in mancanza di prova, che il Comune avrebbe dovuto fornire, di inadempimenti, da parte del dirigente, tali da giustificare dette iniziative non essendo invece stata proposta censura avverso le affermazioni della sentenza impugnata sulla insussistenza degli addebiti mossi.

Il quarto motivo, relativo al riconoscimento del risarcimento del danno all'immagine, va parimenti rigettato, per le ragioni già esposte in relazione al terzo motivo del ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D..

Con il quinto mezzo si denunzia difetto di motivazione, perchè, da un lato, la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il provvedimento di messa in disponibilità, e poi, contraddittoriamente lo avrebbe ritenuto risarcibile.

Il motivo è infondato, giacchè la Corte territoriale non ha affermato la legittimità della collocazione in disponibilità, avendo testualmente rilevato che la illegittimità dell'atto presupposto, ossia il provvedimento di definizione della nuova pianta organica, si riverberava sugli atti esecutivi posti in essere, e cioè sulla revoca degli incarichi dirigenziali di staff e sulla successiva procedura di messa in disponibilità di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 33. La Corte di Milano, pur escludendo la nullità della stessa delibera di determinazione della pianta organica, avendo negato che fosse stata posta in essere per motivi discriminatori, e cioè al solo fine di liberarsi dei dirigenti, ne ha però sancito la illegittimità (derivata) e tanto è sufficiente a sorreggere la statuizione risarcitoria.

Conclusivamente il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del F. va integralmente rigettato.

5. Con il primo motivo del ricorso principale il F. lamenta la violazione degli artt. 1418, 1419, 1453 e 2058 c.c. in ordine alla mancata reintegrazione nelle funzioni di dirigente del settore, perchè la Corte territoriale, pur avendo affermato la natura discriminatoria della revoca dell'incarico dirigenziale, non lo aveva reintegrato nelle funzioni, mentre sarebbe irrilevante la circostanza ravvisata dalla sentenza impugnata per cui il periodo di disponibilità era spirato alla data di presentazione del ricorso, attenendo detta circostanza, tutt'al più, alla fase dell'esecuzione. Con il secondo motivo del ricorso principale del F., che corrisponde al primo motivo del ricorso incidentale del D., si denunzia difetto di motivazione, per non avere la Corte di Milano riconosciuto che la delibera di attuazione del regolamento - nella parte in cui definiva la nuova dotazione organica con la soppressione delle posizioni dirigenziali prima esistenti, nonchè i successivi atti di revoca dell'incarico di staff, la dichiarazione di eccedenza e la messa in mobilità - fosse nulla o inefficace perchè adottata per motivi discriminatori. Si assume che la Corte non avrebbe valutato le circostanze precedenti alla modifica della dotazione organica, della cui necessità il Comune non aveva mai neppure allegato prova.

Il F., con il terzo mezzo, che corrisponde al secondo motivo del D., si duole della parte della sentenza già oggetto della censura precedente, per violazione dell'art. 416 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., perchè il Comune non avrebbe mai chiesto di provare l'esistenza di motivi organizzativi ed economici sottesi al provvedimento adottato sulla nuova dotazione organica.

Il F., con il quarto motivo, che corrisponde al terzo del D., censura ancora la parte della sentenza impugnata di cui ai precedenti motivi secondo e terzo, per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 2727 e 2729 c.c., prospettando l'esistenza di un motivo illecito che avrebbe ispirato il provvedimento di modifica della dotazione organica, come dimostrato dalle prove testimoniali attestanti il carattere discriminatorio della revoca degli incarichi, il quale costituirebbe presunzione del carattere parimenti discriminatorio della soppressione dei posti dirigenziali, considerato anche che, in meno di sei mesi, la struttura organizzativa del Comune era stata stravolta per ben tre volte: prima ampliando le posizioni dirigenziali da tre a quattro, poi istituendo altre due posizioni dirigenziali di staff, per poi diminuirle ad una sola unità. Pertanto la natura discriminatoria dei provvedimenti impugnati comporterebbe il ripristino della situazione contrattuale originaria precedente, e quindi la prosecuzione de iure del rapporto dirigenziale, con diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate fino alla effettiva riammissione in servizio.

Con il quinto motivo si censura la sentenza per violazione degli artt. 1453 e 2058 c.c. e dei principi costituzionali che tutelano l'autonomia e l'indipendenza del dirigente pubblico, garantendogli un regime di stabilità del rapporto, nonchè dei principi dell'ordinamento che privilegiano la tutela sattisfattoria dell'interesse leso.

Si reiterano le considerazioni già svolte nel primo motivo sul diritto alla reintegrazione nel posto dirigenziale già occupato in forza del regime di stabilità che caratterizzerebbe il pubblico dirigente.

6. Va preliminarmente rigettata la eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità del controricorso e del ricorso incidentale del D. per avere costui depositato un fascicolo "ricostituito" contenente documenti non prodotti nei gradi di merito, giacchè ciò comporta la inammissibilità del deposito di nuovi documenti senza però inficiare la validità nè del controricorso nè del ricorso incidentale.

7. I suddetti primi cinque motivi del ricorso principale F. e i primi tre motivi del ricorso incidentale D., che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono fondati.

Va rilevato in primo luogo che gli effetti economici pregiudizievoli della illegittima revoca dell'incarico dirigenziale hanno trovato riparazione nella condanna inflitta al Comune al pagamento delle differenze retributive tra quanto spettante con il mantenimento dell'incarico medesimo e la minor somma di fatto percepita.

Resta, ed è questa la questione fatta valere con i motivi suddetti, il tema del diritto dei dirigenti al ripristino delle funzioni dirigenziali.

La Corte di Milano ha affermato che la delibera di soppressione delle posizioni dirigenziali era stata effettuata con violazione di legge (statuizione che resta ormai ferma a seguito del rigetto dei ricorsi del Comune) e che la illegittimità di questo atto presupposto si riverberava in primo luogo sulla revoca degli incarichi dirigenziali originariamente ricoperti (dirigente del settore amministrazione generale e di dirigente del settore servizi alla persona) e quindi sulla revoca del collocamento in posizione di staff e successivamente ancora sulla messa in disponibilità. Tuttavia ha rilevato nel prosieguo che la collocazione in disponibilità, pur essendo illegittima, non era però nulla per motivi discriminatori, e ciò non consentiva la reintegra nell'incarico dirigenziale.

La Corte territoriale, ritenendo che solo l'esistenza del motivo discriminatorio consentirebbe di pervenire alla richiesta riammissione nell'incarico dirigenziale, ha erroneamente omesso di considerare le conseguenze derivanti dalla pur dichiarata disapplicazione dell'atto presupposto, e quindi tutti gli effetti che questo provocava sull'atto di gestione del rapporto costituito dalla revoca ante tempus dell'incarico medesimo.

8. Tuttavia, il ravvisato difetto di motivazione può condurre all'accoglimento delle censure in esame, e quindi all'annullamento della sentenza, solo risolvendo in senso positivo la questione relativa al diritto del dirigente alla riassegnazione dell'incarico, revocato prima della scadenza prefissata, in conseguenza della illegittimità del provvedimento presupposto, essendo evidente che, in caso negativo, il dispositivo sarebbe conforme a diritto e si tratterebbe solo di correggere la motivazione ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c..

E' noto che il legislatore della "privatizzazione" del rapporto di pubblico impiego non ha introdotto la giurisdizione esclusiva in capo al giudice ordinario, alla stregua di quanto previsto in capo al giudice amministrativo nella precedente disciplina. Dallo "sdoppiamento" di attribuzione tra giudice del provvedimento e giudice dell'atto di gestione, emergono profili problematici quanto all'ambito di protezione riservato al dirigente (ma anche a qualsiasi dipendente pubblico), stante la portata lesiva che nei suoi confronti può assumere un atto generale di organizzazione, sia ex sè, sia in quanto presupposto illegittimo per l'assunzione di un atto paritetico. E detta efficacia lesiva risulta ancor più accentuata da quella giurisprudenza (la già citata Cass. n. 13169/2006) che, proprio in tema di variazione della pianta organica di un ente pubblico, ritiene che non è consentito al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione dell'atto presupposto.

Invero, una volta ricondotte le espressioni della potestà amministrativa nei ristretti limiti segnati al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2, comma 1, non sono molti i casi in cui un atto amministrativo di autorganizzazione può essere astrattamente considerato come immediatamente e direttamente lesivo degli interessi dell'impiegato pubblico; è vero invece che, come nella specie, sono molto frequenti i casi in cui l'atto di gestione del rapporto non è altro che la mera applicazione dell'atto di autorganizzazione.

Nel caso in esame il provvedimento organizzatorio di eliminazione di tutte le posizioni dirigenziali (ad esclusione di quella tecnica) ha avuto come immediata conseguenza la revoca degli incarichi prima della scadenza prefissata, la dichiarazione di eccedenza dei due dirigenti e la loro messa in disponibilità. In altri casi l'effetto lesivo per i pubblici dipendenti può derivare da una ristrutturazione della pianta organica con soppressione di alcuni uffici, che determina la collocazione in disponibilità del personale che vi era addetto.

Tuttavia lo stretto nesso tra il provvedimento amministrativo di autorganizzazione e l'atto paritetico di gestione del rapporto di lavoro, non può condurre a negare che, anche in questi casi, il giudice ordinario possa conoscere della situazione giuridica soggettiva dedotta dal lavoratore. Infatti ciò che il giudice del lavoro deve accertare è la legittimità degli atti di gestione del rapporto, nella specie dell'atto di revoca degli incarichi dirigenziali, e degli atti conseguenti.

8.1. Poichè il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, conferisce al giudice del rapporto la possibilità di verificare la legittimità del provvedimento amministrativo presupposto di autorganizzazione (giacchè il datore di lavoro pubblico è astretto in ciò ad una precisa disciplina, a differenza del datore di lavoro privato) e di disapplicarlo ove ne ravvisi la contrarietà alle regole, la disapplicazione conduce necessariamente a negare ogni effetto, tra le parti, all'atto generale di organizzazione, privando così di fondamento l'atto di gestione consequenziale.

Osserva tuttavia parte della dottrina che il giudice, nel ripristinare la posizione sostanziale lesa del dipendente, non può però ignorare che l'atto organizzativo generale, non solo esiste, ma sarebbe anche definitivamente stabile, non essendo stato eliminato dal giudice amministrativo, a cui nessuno ha fatto ricorso, e non potendo essere annullato dal giudice ordinario, di talchè il giudice del lavoro potrebbe fornire solo quei rimedi che siano compatibili con il provvedimento generale presupposto. Nella specie, non essendovi più le posizioni dirigenziali rivestite dai ricorrenti, non sarebbe possibile disporre la riassegnazione agli interessati delle precedenti mansioni dirigenziali, e non resterebbe che la tutela risarcitoria.

8.2. Vi è tuttavia da considerare che la legge non ha escluso l'operatività del meccanismo della disapplicazione dell'atto organizzativo illegittimo nei casi in cui, come nella specie, l'atto di gestione del rapporto di lavoro sia meramente applicativo di esso; risulta quindi "insito nel sistema" che il provvedimento di macro organizzazione (non sottoposto ad annullamento) da un lato rimanga operativo in via generale, e, dall'altro, essendo privato di effetti nei confronti del dipendente interessato, non valga a sorreggere l'atto di gestione consequenziale, comportando il pieno ripristino della situazione precedente, non potendosi ipotizzare una disapplicazione "dimidiata", ristretta al solo aspetto risarcitorio.

Nel caso in esame, l'attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe effettiva "disapplicazione" dell'illegittimo provvedimento presupposto, perchè questo continuerebbe a giustificare la revoca dell'incarico dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro mesi di collocazione in disponibilità.

Invero, in tal caso, la situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacchè una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi l'adempimento spontaneo da parte del datore. D'altra parte, ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 2, il giudice adotta, nei confronti delle PA, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna ritenuti necessari e, precisa la disposizione, che siano richiesti dalla natura dei "diritti" tutelati, e non vi è dubbio che il dipendente vanti un diritto soggettivo, di talchè è consentito condannare la PA ad un facere a seguito della disapplicazione. Precisandosi che, in ogni caso, la riassegnazione è limitata alla durata residua di cui all'atto di attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima sottrazione.

8.3 Quanto poi alle conseguenze che si determinano sul piano del rapporto di lavoro, il conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il cd. sistema "binario") l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell'art. 2119 c.c., è passibile di recesso prima della scadenza solo per giusta causa, che nella specie fu indicata dal Comune come dovuta al provvedimento di soppressione delle posizioni dirigenziali, il quale però, essendo contra legem, non può valere come giustificazione. La norma codicistica citata non precisa le conseguenze che si determinano sul rapporto di lavoro a tempo determinato in caso in cui il recesso ante tempus non sia assistito dalla giusta causa, tuttavia, a fronte dell'inadempimento datoriale, i dirigenti ben potevano chiedere, in forza dell'art. 1453 c.c., la condanna dell'Amministrazione all'adempimento, per cui, una volta ritenuta illegittima la revoca, riacquista efficacia l'originario provvedimento di conferimento dell'incarico dirigenziale. Infatti, a seguito di questo, la posizione del dirigente aveva ormai acquisito lo spessore del diritto soggettivo allo svolgimento, non più di un qualsiasi incarico dirigenziale, ma proprio di quello specifico che era stato attribuito.

Va ancora negato, sotto questo aspetto, il parallelismo tra dirigenti pubblici e dirigenti privati, giacchè se è vero che a questi ultimi è negata la tutela ripristinatoria, è vero anche che per essi il rapporto è a tempo indeterminato, mentre l'incarico conferito al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo, di talchè la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente circoscritti alla scadenza prefissata.

8.5 Si trae conferma della possibilità di riassegnazione dell'incarico dirigenziale illecitamente revocato dai principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte Costituzionale in materia del cd. spoil system (Corte Cost. n. 233/2006, n. 104 del 2007, n. 103/2007) e quindi in casi che, benchè innegabilmente diversi da quello in esame, fanno tuttavia comprendere i parametri entro i quali va collocata la tutela riservata al dirigente pubblico, in termini di effettività.

Nell'ultima pronunzia citata il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest'ultimo, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell'incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico - amministrativo e quelli di gestione, affinchè il dirigente possa esplicare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost.. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.

Inoltre, con la sentenza n. 381 del 2008, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L.R. Lazio n. 8 del 2007, con la quale, in caso di decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte Costituzionale, si dava alla Giunta regionale la facoltà alternativa o di procedere al reintegro nelle cariche, con ripristino dei relativi rapporti di lavoro, oppure di procedere ad un'offerta di equo indennizzo. In detta pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi "forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi....".

Inoltre, con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007 questa Corte ha affermato che "dichiarato nullo e inefficace il licenziamento di un dirigente comunale per motivi disciplinari inerenti alla responsabilità dirigenziale, il dirigente stesso ha diritto alla reintegrazione nel rapporto di impiego e nel rapporto di incarico, oltre che alle retribuzioni sino all'effettiva reintegrazione." 9. Resta da affermare che anche il D., pur avendo reperito, durante il periodo di collocazione in disponibilità un altro incarico dirigenziale, ha ugualmente interesse alla pronunzia, al pari di quanto avviene per il dipendente privato illecitamente licenziato che chieda la tutela giudiziale, pur avendo reperito nelle more un'altra occupazione.

10. La sentenza impugnata in questi punti della controversia va quindi cassata, affermandosi il seguente principio di diritto: "in caso di illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma della pianta organica di un comune, con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita di effetti dei successivi atti di gestione del rapporto di lavoro, costituiti dalla revoca dell'incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa per il recesso ante tempus dal contratto a tempo determinato che sorge a seguito del relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca." 11. Il F. con il sesto mezzo, che corrisponde al quarto mezzo del D., denunzia violazione dell'art. 2059 c.c. e degli articoli 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 Cost., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 185 c.p. per avere, il giudice dell'appello, rigettato la domanda di condanna al risarcimento dei danni morali per mancanza di reato, trattandosi di diritti inviolabili della persona.

Con il settimo mezzo il F. e con il quinto il D. denunziano ancora violazione dell'art. 2059 c.c. in relazione all'art. 323 c.p. nonchè degli artt. 1374 e 1375 c.c. per avere escluso la sentenza impugnata l'ipotesi di reato di abuso d'ufficio a danno di essi ricorrenti e difetto di motivazione.

Con l'ottavo motivo il F. denunzia difetto di motivazione in relazione al mancato accoglimento del risarcimento del danno esistenziale.

Questi ultimi motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008 si sono espresse sulla risarcibilità del danno morale ex art. 2059 c.c.. La pronunzia ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato) e quello in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge. Nella medesima sentenza è stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno esistenziale, inteso quale "il pregiudizio alle attività non remunerative della persona" causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perchè diversamente denominato.

Ciò vale a rigettare l'ultimo motivo di ricorso del F., non avendo il danno esistenziale richiesto una valenza autonoma e quindi non essendo cumulabile m relazione al danno morale.

Infine per quanto attiene alla prova del danno, le SS.UU. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l'onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto da cui desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio.

Applicando detti principi nella fattispecie in esame, si deve concludere che, anche volendo riconoscere il diritto al risarcimento dei danni morali, i motivi vanno rigettati per l'assorbente ragione che, essendosi le censure concentrate esclusivamente sulla questione della risarcibilità, nessuna allegazione in fatto è stata effettuata sulla esistenza del pregiudizio, nè si è lamentato la mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, di elementi in fatto dedotti nei gradi di merito e non valutati. Il danno, infatti, non è "in re ipsa" (nello stesso senso Cass. SU n. 6572 del 24 marzo 2006), ma va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi, che solo dall'interessato possono essere dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

Vanno quindi affermati i seguenti principi di diritto: "Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perchè diversamente denominato. Il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio." Conclusivamente, va affermata la giurisdizione del giudice ordinario, vanno integralmente rigettati entrambi i ricorsi proposti dal Comune di (OMISSIS) (quello principale nei confronti del D. e quello incidentale nei confronti del F.).

Vanno accolti i primi cinque motivi del ricorso principale del F. e i primi tre motivi del ricorso incidentale del D., mentre vanno rigettati tutti gli altri motivi proposti da entrambe le parti private.

La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altro Giudice, che si designa nella Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, la quale deciderà la causa attenendosi ai principi sopra illustrati, provvedendo anche alla decisione sulle ulteriori pretese economiche del F. di cui al quarto motivo, in relazione al diritto alle retribuzioni fino alla effettiva riammissione in servizio. Il Giudice del rinvio provvederà anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i quattro ricorsi. Dichiara la giurisdizione dell'AGO e rigetta integralmente il ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D. e quello incidentale proposto nei confronti del F.. Accoglie i primi tre motivi del ricorso incidentale del D. ed i primi cinque motivi del ricorso principale del F., rigetta tutti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2009

 


 
 

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